– OHE, RAGAZZI! Altro che balene! Sono i ribbon-fish che vengono a galla. Brutto segno, amici!...
– Voi brontolate sempre, bosmano – disse la voce quasi infantile d'un mozzo.
– Che ne sai tu dell'Oceano Pacifico e delle sue isole, ragazzaccio, che hai finito di poppare appena qualche mese fa?
– No, bosmano, ho sedici anni suonati, e sono figlio d'un marinaio.
– Sì, d'acqua dolce forse. Scommetterei che non è mai uscito dal porto di Valdivia e che non sapeva guidare nemmeno una balsa tuo padre.
– Era un cileno come voi, bosmano.
– Ma non un marinaio come me, che ho quarantasette anni di navigazione.
– Vi dico che...
– Rayo de sol, basta! – urlò il bosmano. – Tu ti vuoi burlare di me, Emanuel!... Sai come pesano le mie mani? No? Te le forò provare, se continui.
– Siete troppo irascibile, bosmano.
– Smettila, mozo cocido (ragazzo pauroso).
– Oh! Bosmano, questo è troppo. Avete torto a trattarmi così.
– Chiquiyo! (monello).
– Oh no! Sono un mozo mui cruo (ragazzo forte e coraggioso).
La disputa chissà quanto avrebbe continuato su quel tono, con grande divertimento dell'equipaggio, che assisteva ridendo a quello scambio di complimenti, quando l'improvvisa comparsa in coperta del comandante, fece chiudere di colpo tutte le bocche.
Il capitano dell'Andalusia era un bel tipo di cileno, con tre quarti di sangue spagnolo nelle vene e l'altro quarto araucano, bruno come uno di quegli indomiti guerrieri delle alte Ande, con due occhi nerissimi e vellutati e ancora ardenti, benché più di cinquanta primavere pesassero ormai sulle spalle di quell'uomo di mare.
La sua statura era quasi gigantesca, una statura più d'americano nordico che meridionale, con spalle poderose ed un collo da toro puna.
Anche i suoi lineamenti erano bellissimi, quantunque la lunga barba, ancora nera malgrado l'età, che gli incorniciava il viso, gli desse un certo aspetto brigantesco.
Doveva aver udito le ultime parole scambiate fra quel brontolone eterno ed il giovine marinaio Emanuel, un biricchino di tre cotte che ci trovava gusto a vedere il lupaccio di mare riscaldarsi, poiché si rivolse subito al primo, chiedendo con un certo fare bonario:
– Che cosa c'è dunque, Reton? Ti odo sempre a brontolare, vecchio mio.
– Mi contraddicono sempre, don José – rispose il bosmano. – E che! Son nato ieri forse? Non è la prima volta che io vedo i ribbon.
– I ribbon, hai detto?
– Sì, capitano.
– Salgono a galla?
– A dozzine.
La fronte del capitano si era increspata. Alzò la testa e girò intorno a se stesso, guardando il cielo in tutte le direzioni.
– Eppure non si scorge una nuvola e il vento è moderato – mormorò. – È vero che siamo nella regione dei salti di vento e che la Nuova Caledonia non è lontana più d'un centinaio e mezzo di miglia.
Poi volgendosi verso il bosmano che aspettava di essere interrogato, gli disse:
– Mostrami questi ribbon-fish.
– Non avete che ad avvicinarvi alla murata, don José. Montano da tutte le parti.
Il capitano scosse a più riprese la testa e s'avvicinò alla murata di babordo, curvandosi sul capo di banda.
– È vero – mormorò. – Salgono: brutto segno. Avremo qualche terribile salto di vento, di quelli che soffiano da queste parti. Povera señorita Mina! Ella che ha sempre una così gran paura delle burrasche!
Intorno al magnifico veliero, che una fresca brezza di levante spingeva verso la Nuova Caledonia, sorgevano a gruppi, dalle profondità del Pacifico, dei pesci lunghi dai due ai tre metri, somiglianti a grosse anguille, appiattiti ai fianchi, coperti di piccole scaglie, colle natatoie poco sviluppate ed il muso allungato, con una bocca mediocremente aperta.
Erano i così detti pesci-nastri, che si trovano in gran numero nelle acque del Grande Oceano.
La loro carne è pessima, tanto che solo gli abitanti della Nuova Caledonia la mangiano, ed è un vero peccato, perché quelle anguille pesano spesso fino a un centocinquanta chilogrammi.
Ordinariamente si tengono sempre a grandi profondità, però, all'avvicinarsi di qualche terribile burrasca, salgono alla superficie in gran numero quasi per avvertire i naviganti del pericolo che li minaccia.
I ribbon scivolavano agilissimi lungo i fianchi della nave, seguendola nella sua corsa, urtandosi sovente gli uni cogli altri, ciò che causava la perdita delle code che sono fragilissime.
– Mi ero ingannato, capitano Ulloa? – chiese il bosmano, avvicinandosi alla murata.
– No, vecchio Reton e avevi ben ragione di brontolare – rispose il comandante che appariva preoccupato.
– Che cosa annunceranno questi pesci?
– Qualche gran salto di vento di certo. Scommetterei che a quest'ora sulle montagne della Nuova Caledonia soffiano quelle maledette raffiche che noi chiamiamo williwawns e che sono il terrore dei naviganti.
– Eppure, guardando il cielo non si direbbe – rispose il bosmano cacciandosi sotto il palato un pezzo di tabacco. – Non si scorge nemmeno un cirro in cielo.
– Non illudiamoci di questa calma, Reton. Nasconde qualche tradimento e chissà quanto sarà tremendo. Ci troviamo in pessimi paraggi e tu sai, quanto me, che qui le onde s'innalzano più che in qualunque altra regione del mondo.
– Mil diablos! Le ho provate per tanti anni, capitano e, se mi permettete, vorrei darvi un consiglio.
– Di' pure, Reton.
– Di rinunciare pel momento a raggiungere la baia di Bualabea e di metterci al sicuro al di là della barriera dei frangenti che corre parallelamente alle coste dell'isola. Là dentro, don José, noi potremo aspettare, senza correre soverchio pericolo, che l'uragano si calmi.
– I frangenti! Sono ben quelli che mi fanno paura, bosmano e sono proprio quelli che mi preme invece di evitare – rispose il capitano. – I salti di vento della Caledonia sono troppo pericolosi e le rocce non bastano a spezzarli. Se l'Andalusia avesse nel suo ventre delle caldaie ed una buona elica sotto la poppa, potrei anche seguire il tuo consiglio. Cacciarmi là, dentro quelle scogliere, con un veliero che non sempre obbedisce allo sforzo dell'equipaggio, no, non me la sento davvero. Io non sono un Coock, né un Tasman, né un Mendana.
– Oh! Valete quanto quei famosi navigatori, capitano.
– Sia come vuoi, preferisco spingermi verso la baia di Bualabea. D'altronde quella è la nostra mèta, perché son là le foci del Diao. L'Andalusia è solida, e batterà, sempre bene l'oceano purché i frangenti non la insidino. Valgame Dios! Eccola la nube che s'avanza. Sono i salti di vento che la spingono verso di noi.
Gli occhi acutissimi del capitano si erano fissati su una macchia nerastra, che aveva i margini tinti di fuoco e che sorgeva in quel momento sull'orizzonte di levante.
– La vedi, Reton? – chiese.
Un sonoro Mil diablos era sfuggito dalle labbra del vecchio bosmano.
– Quella nube là porterà delle trombe – disse poi. – Prendiamo due mani di terzaruoli, capitano.
– E fa subito chiudere i pappafichi, i contra e le gabbie – rispose il comandante. – Prima del tramonto quella brutta nuvola ci avrà raggiunti e l'Andalusia comincerà un certo ballo che non farà certo piacere alla señorita Mina.
Un lungo fischio risuonò subito sulla coperta del veliero.
I quattordici marinai che formavano l'equipaggio e che in quel momento, non avendo nulla da fare, stavano osservando i salti dei ribbon-fish, si erano disposti ai bracci di manovra, credendo di dover fare qualche virata di bordo al sud od al nord.
Seguirono subito alcuni comandi secchi, taglienti, lanciati dal bosmano, e quei giovani demoni del mare si spinsero, coll'agilità di vere scimmie, su per le griselle, fermandosi chi sui pennoni delle gabbie, chi sui parrocchetti o sui pappafichi.
L'Andalusia che marciava con una velocità di sei o sette nodi all'ora, sempre spinta da un buon vento largo di levante, di mano in mano che le vele venivano imbrogliate o chiuse, rallentava la marcia.
Splendido veliero quell'Andalusia, il più bello di certo che possedesse nel 1867 il Chilì, potenza marinaresca che in quell'epoca non era ancora molto sviluppata e che non dava soverchia ombra nemmeno al vicino Perù, che pure non era troppo forte sul mare.
Era una bellissima nave-goletta a quattro alberi, con vele quadre sul trinchetto e rande e controrande d'uno sviluppo straordinario, sugli altri tre, senza contare i flocchi del bompresso, e della stazzatura di millequattrocento tonnellate.
Era discesa in mare cinque anni prima dai cantieri di San Francisco di California e contava nel suo attivo un bel numero di viaggi, compiuti non solo nell'Oceano Pacifico, ma anche in quello Indiano. Durante le più terribili tempeste se l'era sempre cavata con onore, opponendo agli assalti delle onde i suoi poderosi fianchi di quercia californiana.
Pareva però che i giorni felici fossero lì lì per finire per quella splendida nave, che formava l'ammirazione di tutti i marinai di Valparaiso, poiché l'uragano s'annunciava spaventoso anche per la vicinanza della Nuova Caledonia, tristamente famosa per la violenza spaventosa dei suoi traditori salti di vento, temutissimi da tutti i naviganti dell'Oceano Pacifico.
Serrate le rande e le controrande e parte delle vele dell'albero di trinchetto, don José insieme al bosmano, il quale funzionava ad un tempo da mastro d'equipaggio e da secondo si erano messi in osservazione sul castello di prora, spiando ansiosamente la nube nera che continuava ad allargarsi nel cielo con una rapidità straordinaria.
Si avrebbe detto che nel suo umido seno si nascondeva Eolo in persona.
– Che brutta tinta! – aveva esclamato Reton, che di nubi e di cicloni se ne intendeva non meno del capitano. – Piomberà su di noi con un assordante accompagnamento di tuoni e di fulmini e Dio sa che razza di raffiche ci scaglierà nei fianchi! Là dentro vi sono cento di quei colpi di vento che noi marinai del Cile e delle isole del sud, chiamiamo i williwawns; scommetterei una piastra contro la mia vecchia pipa piangente di nicotina.
– Williwawns! – esclamò una voce dietro di loro.
Il capitano si era vivamente voltato, dicendo:
– Oh! Voi, don Pedro! Anche voi, señorita Mina?
Un bel giovine di ventiquattro o venticinque anni, di statura non troppo alta, tutto muscoli e nervi, colla pelle bruna e gli occhi pieni di fuoco, che indossava un elegante costume di flanella bianca, il classico vestito da viaggiatore, si era accostato a loro dando il braccio ad una ragazza di sedici o diciassette anni, dai lineamenti fini e bellissimi, con capelli lunghi e forse più neri delle ali dei corvi e la pelle bianca con quei riflessi alabastrini, indefinibili, che si osservano solo sulla pelle delle creole sudamericane.
– I williwawns! – aveva ripetuto don Pedro. – Ma non siamo già fra le isole delle terre magellaniche.
– Eppure i salti di vento, che soffiano in questa parte del Pacifico, non sono meno pericolosi di quelli che scendono dalla Cordigliera, mio caro don Pedro – rispose il comandante. – Non faranno certo piacere a vostra sorella: è vero, señorita?
Il viso della fanciulla era diventato un po' oscuro ed i suoi bellissimi occhi, profondi e neri, simili a quelli delle castigliane e delle catalane, si erano un po' offuscati.
– Non amo né le vostre onde, né i vostri venti – disse poi, sforzandosi a sorridere.
– Siamo quasi al termine del viaggio, señorita.
Un brusco soprassalto della nave, accompagnato da una serie di sibili violentissimi, interruppe la loro conversazione.
Un'ondata mostruosa che pareva fosse sorta dalle profondità dell'oceano, si era rovesciata bruscamente sull'Andalusia scuotendola come se fosse un guscio di noce.
I volti del capitano, di don Pedro e del bosmano erano diventati oscuri, mentre quello di Mina si faceva in quel momento pallidissimo.
Fra i sibili del vento si era udita in quel momento la voce sempre allegra di Emanuel, il mozzo che si divertiva a far arrabbiare il vecchio lupo di mare, gridare:
– Bolle la gran tazza! Avanti la musica! Io sono pronto a ballare la sarabanda. Eccoci alla fiera!
Poi quel diavolo di ragazzo, che si teneva ritto sulla coffa, lanciò in viso alle raffiche che cominciavano a scuotere furiosamente l'alta alberatura, con una magnifica voce di tenorino:
«Muchos van a la feria
A ver, y no compran nada
Alonzo, portami il bandolin che faccia l'accompagnamento».
– Ehi, di lassù, calla necio! – gridò il bosmano.
– No, no calla necio – rispose Emanuel, ridendo. – Sono un mozo cocido per voi.
Il capitano e don Pedro, che apparivano preoccupatissimi, non avevano prestata alcuna attenzione a quello scambio di insolenze. Solo Mina aveva sorriso ed aveva guardato con ammirazione il suo mozzo, come soleva chiamarlo, che scherzava così, ai primi colpi della tempesta.
Un dialogo rapido si era impegnato a voce bassa fra don José e don Pedro.
– Uragano terribile, un vero tornado – aveva detto il primo.
– Non occorre, essere marinai per accorgersene – aveva risposto il secondo.
– Voi che siete figlio d'un uomo di mare e che ve ne intendete, prendete il comando di prora ed ai primi soffi fate prendere terzaruoli sulle vele basse. Io sorveglierò i timonieri.
– Avete fatto il punto a mezzodì?
– Sì, don Pedro.
– A quanto siamo dalla costa?
– A centocinquanta miglia dalla baia di Bualabea.
– Se potessimo trovare un rifugio prima che scoppi l'uragano?
– Non vi sono rifugi qui – rispose il capitano. – E poi ci mancherebbe il tempo. Riconducete vostra sorella nel quadro e poi subito al vostro posto.
– Questo strano ribollimento del mare mi fa sospettare la formazione di qualche terribile tromba marina. Fate presto, don José e non perdiamo la testa.
Mentre il capitano si preparava freddamente alla lotta, l'oceano faceva pure i suoi preparativi di combattimento.
Quantunque dopo quelle prime raffiche e quell'ondata formatasi lì per lì senza che prima alcun indizio lo facesse sospettare, fosse succeduta una calma relativa, tuttavia non persuadeva nessuno dell'equipaggio.
La tempesta stava formandosi e raccoglieva tutte le sue forze, prima di scendere in campo e misurarsi coll'oceano.
Il sole che era prossimo al tramonto era diventato sbiadito come se fosse ammalato; l'aria si faceva fosca e il nuvolone nero si dilatava avanzandosi verso levante.
Stormi di uccelli marini passavano sopra l'Andalusia, mandando lunghe strida e fuggivano, rapidi come saette, in direzione della Nuova Caledonia, per cercarsi un rifugio fra le scogliere prima che il vento li travolgesse.
Ora erano degli ostreganti, tutti bianchi con delle sfumature rosee all'estremità delle penne; ora degli streptoceryle stellati, i più grossi degli alcedini e formidabili pescatori, che salutavano l'equipaggio con grida roche, o dei prionturtur, graziosi uccelli marini, grossi come una tortorella, colle penne grigio turchine sopra e bianche sotto, che volavano in bande numerose.
Di quando in quando anche qualche splendido albatros, grosso quanto un'aquila, passava con uno strano rombo, scuotendo le sue immense ali, seguìto da alcune coppie di rompitori d'ossa, specie di procellarie giganti, tutti bruni e la testa armata d'un becco così robusto da poter rompere anche il cranio ad un uomo.
Tutti quei volatili, quantunque abituati a sfidare le formidabili tempeste dell'Oceano Pacifico ed i furori dell'Oceano Indiano, manifestavano colla loro fuga disordinata e vertiginosa un vero spavento.
– Scappano troppo lesti – aveva mormorato il bosmano, scuotendo la testa. – La notte sarà una delle più terribili e amerei meglio trovarmi al sicuro nella mia casupola d'Assuncion.
Erano le sette di sera ed il sole si era appena tuffato in mare, quando la voce del capitano echeggiò come una tromba sul banco di quarto:
– A posto di manovra! La guardia franca lasci le brande! Ecco l'uragano!
Quasi nel medesimo tempo si fece udire anche la voce secca ed energica di don Pedro.
– Due mani di terzaruoli sul trinchetto e sul parrocchetto! Giù il gran flocco!
Il mare si era messo a bollire e ribollire, lanciando in tutte le direzioni delle ondate biancastre e vorticose che si colorivano stranamente degli ultimi riflessi della luce crepuscolare. La loro schiuma talvolta si tingeva di rosso, come se migliaia d'invisibili prismi vi condensassero l'ultimo raggio di sole vibrante ancora attraverso gli spazi celesti.
Mentre l'oceano cominciava a entrare in convulsioni, le raffiche giungevano sempre più impetuose con urla ora rauche ed ora stridenti, accompagnate da mille fischi, che talvolta, fra i muggiti dei marosi, rassomigliavano a grida umane invocanti soccorso.
Ed intanto l'enorme nube, diventata ormai nera come se fosse pregna d'inchiostro, s'avanzava, s'avanzava, più minacciosa, più terribile, senza che un lampo la illuminasse.
Se mancavano anche i tuoni, si udivano però uscire talvolta, dal suo seno, dei fragori strani, come se una grandinata furiosa s'abbattesse su qualche città invisibile.
L'Andalusia, colla sua velatura ridotta, fuggiva verso il nord, essendo ormai il vento girato da levante a ponente, rompendo di quando in quando la rotta, per fare una lunga bordata verso nord-ovest per non derivare troppo e venire cacciata in mezzo al Pacifico meridionale.
L'oscurità diventava di momento in momento più densa, poiché anche la luce crepuscolare era scomparsa, accrescendo così l'orrore della tempesta.
Una vaga inquietudine si era impossessata di tutti, dal capitano all'ultimo marinaio. Solo Emanuel, che forse non prevedeva la violenza di quel ciclone, sembrava tranquillo, poiché di tratto in tratto, quando i williwawns scemavano d'intensità, si udiva scendere dalla coffa del trinchetto la sua voce squillante che cantava sempre: «Muchos van a la feria...» ciò che faceva andare in bestia il bravo bosmano.
Certo quell'indiavolato ragazzo voleva dimostrare al vecchio lupo che era veramente figlio d'un buon marinaio e che non era affatto un mozo cocido.
Reton era però tutto occupato a guardare i timonieri in compagnia del capitano ed a osservare lo stato del mare. La sua grossa testa, ancora irta di capelli non interamente grigi, e ispidi come i peli d'una bestia in furore, non cessava di scuotersi da destra a sinistra. Pareva un vero orso bianco.
– La va male – mormorava sempre. – Questi salti di vento non mi soddisfano affatto. Sono i piccini dell'avanguardia.
Non s'ingannava, il vecchio Reton. Alle nove, quando la nuvola nera cominciava a tingersi di strane luci prodotte senza dubbio da lampi intensissimi che davano alle onde un aspetto livido, i grossi williwaws cominciavano a giungere, scendendo con furia estrema dalle montagne della Nuova Caledonia.
S'annunciavano con una specie di fremito sonoro che ingigantiva rapidamente, fino a diventare un lungo ruggito, poi s'abbattevano sull'oceano, schiacciando di colpo, per modo di dire, i cavalloni i quali, passato oltre quel soffio poderoso, infuriavano con maggior rabbia, quasi come per vendicarsi di essere stati per un momento sopraffatti da Eolo.
Chi se ne risentiva di quei tremendi scoppi d'ira del Pacifico era l'Andalusia.
Quantunque fosse stata fabbricata a prova di scoglio, come dicono gli americani del Nord, la povera veliera subiva dei soprassalti terribili che sfondavano lo stomaco perfino ai più vecchi marinai.
S'alzava sulle creste come una baleniera vuota, tanto bene era equilibrato il suo carico, tuffando le altissime cime della sua alberatura negli strati inferiori dell'immensa nuvola nera, poi strapiombava nei baratri con una velocità così fulminea da parere anziché una discesa, una vera caduta, e tale era veramente la sensazione che provava l'intero equipaggio.
E non c'era da stupirsene poiché le ondate più gigantesche non s'incontrano che nell'Oceano Pacifico, equatoriale e meridionale.
In nessun altro luogo del mondo, nemmeno nei pressi del Capo di Buona Speranza o delle coste meridionali dell'Australia, le tempeste sono così tremende come quelle che si abbattono sulle coste della Nuova Caledonia.
Forse trovano un riscontro nei cicloni che di quando in quando devastano le isole antilliane; tuttavia quelli sono meno traditori e più brevi.
Nei paraggi della Caledonia i venti raggiungono una velocità spaventevole e non hanno una direzione costante, perché soffiano da tutti i punti dell'orizzonte. Quando cominciano la ridda è un vero disastro per quei disgraziati abitanti, perché sollevano o sfondano le capanne, abbattono le piante più colossali e, cosa strana, inaridiscono la maggior parte dei rami degli alberi, compromettendo gravemente i raccolti dell'annata.
Ad un tratto però, con grande stupore dell'equipaggio, ma non già del capitano, una calma improvvisa si manifestò in quello spazio battuto dal ciclone.
Le raffiche, poco prima furiose, erano cessate quasi di colpo e non si udivano più che i cupi muggiti delle onde ed il rumoreggiare del tuono entro la gran nube nera.
Pedro, non meno sorpreso degli altri per quello strano cambiamento, aveva lasciato il castello di prora raggiungendo don José che si trovava sempre sul casseretto col bosmano.
– Che cosa avviene, signor Ulloa? – chiese. – Questa calma improvvisa mi fa più paura di cento colpi di vento.
– Avete ragione, don Pedro – rispose il capitano la cui fronte si era maggiormente oscurata. – Fortunatamente conosco troppo bene questi mari per lasciarmi ingannare. Un altro forse ne approfitterebbe per spiegare un po' di tela e fuggire: io non commetterò una simile imprudenza. Questo è il tradimento del gran salto di vento. A quanto è sceso il barometro?
– A 718 – rispose uno dei timonieri che usciva in quel momento dal quadro.
– È la cifra terribile – disse il capitano. – Altro che la calma!
Cominciava a piovere o meglio a diluviare e la gran nube si spezzava, mostrando qua e là qualche stella. Non era pioggia, era una vera tromba d'acqua che si rovesciava sull'Andalusia. Gli ombrinali non bastavano a sfogarla quantunque ve ne fosse un buon numero sotto le murate.
Qualunque altro, non pratico di quei luoghi, si sarebbe convinto che la bufera stava per finire. Persino la luna cominciava a far capolino fra gli strappi del nuvolone.
Le preoccupazioni di don José e anche del bosmano invece aumentavano.
L'Andalusia era rimasta quasi immobile, perché, come abbiamo detto, non soffiava più il vento. Solo le onde, sempre altissime, la squassavano fortemente, percuotendole con furia e con scrosci assordanti, i solidi fianchi.
A bordo tutti tacevano, come se avessero avuto paura che l'eco delle loro voci turbasse quella calma.
D'improvviso la voce squillante di don José si fece udire, dominando per un momento i fragori dell'oceano.
– Attenti al salto di vento! Giù tutti i flocchi!
Aveva appena pronunciate quelle parole, quando l'equipaggio vide la nube raccogliere, con rapidità fantastica, i suoi lembi e ripiegarsi come su se stessa, mentre lampi sinistri quasi ininterrotti, guizzavano in tutte le direzioni, illuminando la notte di riflessi lividi. Quasi subito si udì in lontananza un rumore strano, stridente, che s'avvicinava con spaventevole rapidità. Era la grande raffica che piombava sull'Andalusia.
I marinai avevano calati i flocchi, appena in tempo. La terribile folata di vento s'abbatté con mille urla sulla nave, scuotendola come una piuma.
I quattro alberi, quantunque solo il trinchetto avesse le due vele basse, si piegarono scricchiolando sotto l'immane urto, spezzando qualche sartia e qualche paterazzo, però, contrariamente alle previsioni di tutti, ressero all'impeto del ciclone.
Le vele di trinchetto e di parrocchetto furono tuttavia sventrate di colpo ed i loro lembi scomparvero, come grossi gabbiani, lontano lontano.
– Issa una vela! – urlò don José, mentre la nave minacciava d'ingavonarsi.
L'Andalusia, che non aveva più alcuna stabilità, rollava e beccheggiava spaventosamente; guai se la zavorra si fosse in quel momento spostata! Fortunatamente si componeva, invece della solita sabbia, di grosse piastre di ghisa, sovrapposte in modo da non potersi muovere.
Don Pedro, un po' pallido, si era nuovamente accostato al capitano.
– Che il tesoro del vecchio capo dei kanaki se ne vada? – gli chiese, non senza una certa emozione.
– Speriamo di no – aveva risposto don José.
– Che cosa succederà ora?
– Solo Dio lo sa, don Pedro.
– Dubito di poter raccogliere quella famosa eredità.
– Eh! I cicloni non ragionano!
– Quanto potremo impiegare a giungere alla baia?
– Chi può dirlo? Possiamo venire cacciati anzi molto al largo.
– Quale fortuna per don Ramirez!
– Non occupatevi di costui in questo momento. Il tesoro della Montagna Azzurra non è ancora in sua mano.
– E se fosse già arrivato?
Il capitano non rispose. Guardava attentamente l'oceano che si spianava dinanzi alla nave.
– Valgame Dios! – mormorò, torcendosi nervosamente i baffi. – Sta formandosi, ne sono sicuro.
– Che cosa, don José?
– Una tromba – rispose il capitano con voce rauca. – Guardate là, dinanzi a noi, dove le onde invece d'alzarsi si abbassano. Questa brutta sorpresa non me l'aspettavo.
Poi alzando la voce comandò:
– Il cannone dei segnali in coperta. Presto, caricatelo!
A duecento passi dall'Andalusia l'acqua cominciava a girare vorticosamente come se il mare fosse agitato da qualche convulsione interna.
Era la tromba marina che stava formandosi.