UN TREMENDO URAGANO imperversava sul Mediterraneo. Enormi masse di vapori, travolte da un vento furioso che scendeva dalle regioni settentrionali, correvano all’impazzata nel cielo tenebroso, accavallandosi confusamente, addensandosi in un punto o in un altro, per poi venire bruscamente lacerate e sconvolte, mentre sotto di loro, il mare, sollevato da quei soffi potenti, si rimescolava orribimente con muggiti spaventevoli, sfasciandosi, con impeto irrefrenabile, contro le grandi e piccole isole del vasto mare e contro le coste della Francia, della Spagna, dell’Italia e dell’Africa.
Alla livida luce dei lampi, che rischiarava quella notte tempestosa, apparivano ad intervalli delle grandi navi che lottavano disperatamente contro la rabbia del turbine, che si lasciavano trasportare alla cappa, ormai impotenti a resistere.
Delle grida di sorpresa echeggiavano di quando in quando, fra gli scrosci delle folgori e i muggiti delle ondate, perdendosi tra i fischi del vento. Pareva che gli equipaggi di quelle navi, naviganti fra le coste di Francia e il gruppo delle Baleari, più che curarsi della tempesta e dei pericoli che correvano, si interessassero di qualche straordinario avvenimento.
Lasciavano i bracci delle manovre per guardare in alto. Perfino i timonieri e gli ufficiali di quarto, per un istante lasciavano la barra o la ruota del timone, o staccavano gli sguardi dalla bussola per guardare le nubi che correvano, sempre più scapigliate, pel cielo tempestoso.
Cosa cercavano lassù, mentre il mare assaliva, con crescente furore, le loro navi, cercando di demolirle e di inabissarle nei profodi baratri del Mediterraneo?...
Che cosa? Un immenso pallone che il turbine trascinava nella sua corsa disordinata. Era comparso, alla luce dei lampi, verso il nord, era passato sopra le loro teste come una rapida, fulminea visione, fuggendo verso le isole Baleari, poi era scomparso in direzione della costa africana.
Era stato veduto un solo istante, poiché il vento, che aveva aquistato una velocità di metri ventidue al minuto secondo, come nelle forti tempeste, l’aveva subito trascinato via spingendolo in mezzo alle nubi, ma per quanto quel passaggio fosse stato rapido, tutti l’avevano veduto distintamente.
Era proprio un pallone, in forma di fuso, di dimensioni gigantesche, sorreggente una navicella di forma strana che rassomigliava vagamente ad una casetta od a qualche cosa di simile.
Si erano ingannati?... No: avevano veduto troppo bene per non credere ai loro occhi.
In mezzo alle nubi, trascinato dal turbine, correva realmente un pallone enorme, della forma sopra descritta. Fuggiva colla rapidità del vento, in direzione della costa algerina, mantenendosi ad un’altezza di duemilatrecento metri.
La navicella, che pareva veramente una piccola casetta costruita tutta in legno di noce, a due tetti pioventi, con parecchie piccole finestre, subiva delle brusche ondulazioni causate dalle raffiche ineguali del vento.
Di tratto in tratto ad una di quelle finestre appariva la testa di un uomo coi capelli biondi, gli occhi azzurri, ma vivi e penetranti, i baffi lunghi, pure biondi, colle punte rivolte in alto ed i lineamenti energici.
Quell’uomo non pareva affatto spaventato nel trovarsi là in alto, in mezzo all’uragano e sopra un mare procelloso. Pareva che non pensasse affatto che un fulmine poteva da un istante all’altro fargli scoppiare il pallone e le onde furiose inghiottirlo per sempre.
Il suo viso non tradiva alcuna apprensione e le sue labbra sorridevano.
– Aho!... – ripeteva, respirando a pieni polmoni il vento che lo investiva con maggior furia. – Io mi divertire immensamente!... Io non soffrire più spleen!... Io dimenticare tutto!... Ma no tutto!... Povero Ernesto!... Povera miss Odowna!
Chi era quell’uomo?... I nostri lettori l’avranno ormai riconosciuto. Era quell’originale, ma simpatico William Fromster, l’amico e socio di Ernesto Baldi, infine il milionario americano .
Come si trovava lassù, sopra il Mediterraneo, trasportato dal turbine verso le coste settentrionali dell’Africa?... Lo spieghiamo in poche parole.
I lettori si ricorderanno che la folgore era piombata sul castello, nel momento in cui miss Odowna vi giungeva e che Ernesto invitava l’originale americano a scendere.
Per un caso fortuito la folgore, invece di colpire il pallone e di farlo scoppiare come una polveriera, aveva colpita la corda metallica che aveva fatto l’ufficio d’un parafulmine.
Il pallone, non più trattenuto, era stato trascinato via dal ciclone come se fosse una semplice pagliuzza. In pochi istanti il castello scompariva e William si trovava sopra il Mediterraneo in mezzo alle nubi, essendo la potenza ascensionale del gigantesco fuso notevolissima.
L’americano non si era per questo spaventato. Passato il primo istante di sorpresa, aveva fatto ben presto buona cera all’avversa fortuna, e dobbiamo dirlo, si era perfino dimenticato, nei primi momenti, del suo inseparabile Ernesto, e perfino della fidanzata.
Quella corsa sulle ali del turbine, sospeso in alto, gli andava a sangue. Lo spleen, quel tremendo spleen, che lo colpiva così sovente e che faceva tanto paura ad Ernesto, era sparito, e se quel viaggio continuava non vi era pericolo che ritornasse, poiché l’americano cominciava a divertirsi immensamente.
– Aho! – ripeteva, guardando curiosamente le nubi turbinanti ed i lampi che si riflettevano sulla lucida superficie del pallone. – Io non essermi mai divertito tanto!... Se io aver saputo prima questo, io non avrei mai avuto spleen e mia milza non aver mai sofferto!... Se non fosse per Ernesto, io continuerei viaggio sempre, e miss Odowna aspettare ancora molto tempo, perché io sento non amare molto le donne ed essere guarito dalla mia passione. Aho!... Dove andare io?
Dove andava?... Era un po’ difficile saperlo, poiché il pallone, fabbricato come era e rinchiuso in quattro fodere e colla sua potenza ascensionale, non accennava ad abbassarsi tanto presto, né a guastarsi.
Il turbine lo trascinava sempre con grandissima rapidità sopra il Mediterraneo. Erano già trascorse quattro ore, ma giù, in fondo, nessuna terra appariva.
Attraverso a quel velo tenebroso, William aveva più volte scorto qualche punto luminoso rosso o verde, ma quelle luci dovevano provenire dai fanali di qualche nave solcante il mare burrascoso.
Intorno al pallone invece, non scorgevansi che masse caliginose, che a volta a volta piombavano sulla navicella e che talora s’illuminavano sotto la luce dei lampi.
Dall’immenso baratro aperto sotto, salivano invece cupi muggiti che indicavano sempre la presenza delle onde, mentre in alto scrosciavano tuoni formidabili, assordanti.
William guardava sempre verso il sud, poiché era da quella parte che doveva apparire la terra. Malgrado si divertisse immensamente, e malgrado il suo coraggio a tutta prova, qualche inquietudine cominciava ad infiltrarsi nel suo animo.
Egli si domandava dove lo avrebbe trasportato quell’uragano, che non accennava a scemare. Con quella velocità che doveva toccare le cento miglia all’ora, doveva già aver attraversato una buona parte del Mediterraneo, e le coste africane non dovevano tardare a comparire.
– Quando io vedere sotto di me la terra, io cercare di scendere – diceva l’americano. – Bisogna dare qualche notizia a quel buon Ernesto il quale essere certo molto inquieto per io.
William però si dimenticava che non possedeva un’àncora da calare e che il pallone essendo stato costruito per rimanere prigioniero, non possedeva la valvola di sfogo per lasciar sfuggire il gas.
Altre tre ore erano trascorse, quando gli parve di scorgere, verso il sud, un vivo chiarore. Pareva che quella luce fosse prodotta dalla riunione di un grande numero di fanali o da qualche riflettore elettrico.
Quella luce però ben presto sparve, poiché il pallone continuava la corsa precipitosa. William però s’accorse non essere più sul Mediterraneo, poiché non udiva più i muggiti delle onde.
– Devo essere in Africa – mormorò. – Forse io essere passato sopra Algeri o sopra Orano. Se non mi affrettare a scendere io andare a finire nel deserto di Sahara, ed allora chissà quando poter rivedere Ernesto. Ma come fare a scendere?... Se si trattasse d’innalzarmi basterebbe gettare la mobilia del mio appartamentino, ma questo pallone non avere alcuna valvola. Aho! Comincio ad averne abbastanza di questo viaggio, quantunque sia gran piacevolissimo.
Si mise a pensare, ma non trovava alcun mezzo per effettuare la discesa. Si trovava come prigioniero, ma a duemila metri d’altezza.
Ad un tratto ebbe un’idea.
– Sì – disse. – Bisogna fare uno strappo al pallone.
William, come si sa, era coraggioso. Senza perdere tempo si recò nel gabinetto di toeletta per cercare di raggiungere il tetto passando per un finestrino, non osando uscire dalla galleria, ma ben presto s’accorse che era troppo grosso per poter passare di là ed anche troppo pericoloso quel progetto, poiché se una mano gli fosse mancata, sarebbe caduto nel vuoto.
– Bisogna sfondare il tetto – disse.
Già aveva afferrato un coltello, quando si ricordò di aver veduto in un angolo della sala da pranzo un fucile. Ve l’aveva messo Ernesto, perché il suo amico si divertisse a cacciare gli uccelli del parco, i quali spesso salivano fino alla navicella per osservare quel mostro galleggiante in aria.
Andò a cercarlo e trovatolo s’accorse che era ancora carico a pallettoni.
– Può bastare – disse.
Si affacciò ad una finestra. L’enorme fuso gli stava sopra il capo e mostravagli la parte anteriore che si allungava fra le nubi circostanti.
William mirò la parte estrema con grande attenzione, non volendo lacerare che il primo involucro per tema di veder il pallone precipitare verso il suolo con grande rapidità, e fece fuoco.
La punta, un istante dopo si ripiegava come si fosse sgonfiata d’un colpo solo, e per l’aria si sparse un acuto odore di gas.
Il fuso, gravato da quel primo involucro che si ripiegò su quello sottostante e privato d’una parte della sua potenza ascensionale in causa della fuga dell’idrogeno, calava con una certa precipitazione.
Faceva dei bruschi salti di trenta o cinquanta metri, poi s’arrestava un istante oscillando fortemente, poi cadeva ancora, ma il vento sempre impetuoso, in gran parte lo sorreggeva.
Dovevano essere le quattro del mattino, quando William cominciò a distinguere la terra. Era però ancora assai lontana, poiché il pallone non scendeva che a tratti e sempre con frequenti fermate.
Ai primi chiarori dell’alba, distingueva confusamente una vasta pianura che pareva piena di abitazioni, ma che talvolta scompariva come se sopra di essa si precipitassero delle ondate d’una nebbia giallastra.
– Dove sono? – si chiedeva William, con insistenza. – Sopra il Sahara forse?...
Ad un tratto udì sopra la sua testa dei leggeri crepitìi: pareva che dei corpuscoli percuotessero la seta del pallone. Poco dopo dei granelli di sabbia lo colpirono in viso costringendolo a chiudere gli occhi.
Da quelle pianure s’alzava, in forma di colonne roteanti, quella nebbia giallastra, ravvolgendo la base della navicella.
– Sabbia!... – esclamò William, con inquietudine. – Povero Ernesto!... Chissà quando io rivederti!...
Il pallone continuava a scendere, mentre il sole cominciava ad apparire all’orizzonte. L’uragano si disperdeva rapidamente: le nubi si scioglievano come se fossero assorbite ed evaporizzate da una corrente d’aria caldissima; il vento, perduta gran parte della sua violenza, non soffiava più che ad intervalli ed i tuoni erano cessati.
William guardava sempre. Il pallone correva sopra quella pianura, la quale pareva che non avesse confini. Non era però, quel lembo del deserto africano, perfettamente piano, ma rotto da ondulazioni sabbiose, da depressioni considerevoli e da catene di collinette.
Qua e là appariva qualche solitaria palma, poi apparivano dei gruppetti di erbe semi-inaridite e in parte coperte di sabbia e più oltre degli scheletri di dimensioni notevoli, forse avanzi di cammelli e di mahari.
Nessun abitante né alcun gruppo di tende si scorgeva in nessuna direzione. Pareva che quella parte del grande deserto fosse proprio disabitata.
– L’avventura essere strana – diceva William. – Temo che lo spleen ritorni. La noia!... Oh! Io avere tempo per annoiarmi fra queste sabbie. Avessi almeno mio Ernesto con me, ed invece essere solo, perduto in mezzo a questo oceano di sabbia e colla probabilità di morire presto di fame, poiché mia cucina, essere vuota! E però...
S’interruppe bruscamente: dinanzi a lui, verso il sud, aveva scorto una macchia verde-cupa, la quale pareva che si dilatasse rapidamente, continuando il pallone ad avanzarsi con notevole velocità.
– Che sia un’oasi? – si chiese William. – Ecco una fortuna che io non aspettare.
Il vento spingeva il pallone in quella direzione, ma il gas, continuando a fuggire, minacciava di far cadere l’aerostato molto prima che giungesse in quel macchione di verzura.
Già la navicella non era che a trecento passi dal suolo. William, che voleva scendere nell’oasi, cominciò a gettare una parte degli oggetti meno utili, specialmente le macchine che servivano per rimorchiare il pallone a terra.
Il pallone, scaricato d’un peso considerevole, s’alzò ancora fino a settecento metri, per ricominciare la discesa, ma ormai William non s’inquietava.
L’oasi non era che a due miglia: si distinguevano perfettamente gli alberi che la circondavano.
Alle sei del mattino la navicella radeva le sabbie del deserto. Poco dopo urtò, ma il pallone si risollevò un’ultima volta e non s’arrestò che addosso alle prime palme.
William stava per balzare a terra, quando una voce gli disse in puro inglese:
– Adagio, signore: non bisogna lasciar fuggire questo pallone che può renderci ancora un grande servigio.