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Il treno volante

Capitolo 1: A Zanzibar


LA MATTINA DEL 15 agosto del 1900, una piccola nave a vapore, a due soli alberi, costruita in acciaio come tutti i battelli transoceanici moderni, solcava le acque dell’Oceano Indiano, accostandosi celermente all’isola di Zanzibar.

Il sole che era spuntato da qualche ora, non ostante la leggera nebbia che ancora ondeggiava sul mare, permetteva all’equipaggio ed ai pochi passeggeri della piccola nave, di distinguere, anche senza bisogno di cannocchiali, quella terra promessa dell’Oceano Indiano che è l’ingresso del Continente Nero e che segna una tappa fra le due civiltà dell’Oriente e dell’Occidente. Dapprima erano ombre confuse che si offrivano agli sguardi curiosi, se non dei marinai, almeno dei passeggeri, e che diventavano poi presto più visibili e più definite.

Si vedevano strisce di alberi sconosciuti in Europa, poi rocce coperte di fitte verzure, quindi masse confuse che a poco a poco rivelavano agli occhi gli splendori di una grande città orientale con i suoi tetti piatti, le sue case quadrate, le sue torri massicce e dentellate, le sue cupole ed i suoi sottili campanili o minareti, come vengono chiamati dagli zanzibaresi.

Dinanzi al porto che s’apriva proprio di fronte alla nave, già molto vicina ormai, si delineava il palazzo del sultano, a due piani, con terrazze, porte a grata, colle sue muraglie massicce, la sua pesante torre dell’orologio ed i suoi vasti fabbricati, che servono d’abitazione alle mogli del monarca africano.

Più lontano, appariva confusamente la città commerciale, vero emporio ove s’accumulano tutti i prodotti dell’India, dell’Europa e del Continente Nero e dove vivono, in buona o cattiva armonia, persiani, parti, indiani, portoghesi, arabi, somali, vuagogo e vungamuesi.

Due uomini, due europei, dalla prora della nave, osservavano con vivo interesse la città che si presentava tutta intera dinanzi ai loro occhi, scambiandosi le loro impressioni.

Erano due tipi assolutamente diversi, sia per statura, sia per lineamenti e anche dall’accento, molto diverso, sebbene parlassero entrambi la lingua francese molto correttamente, si indovinava che appartenevano a due razze distinte.

Il più anziano, il quale poteva avere quaranta o quarantacinque anni, era uomo di statura molto alta, mingherlino, con baffi e capelli bianchi, la pelle molto pallida e gli occhi, riparati da occhiali azzurri; un vero tipo di tedesco o di danese.

L’altro invece era di statura bassa, grassoccio, muscoloso. Era più giovane di dieci o dodici anni, col profilo regolarissimo, la pelle bruna assai, gli occhi neri e vivacissimi e la barba ed i capelli più neri delle ali dei corvi.

Mentre l’altro pareva freddo e compassato come un inglese, l’ometto grassotto sembrava dotato di quella vivacità straordinaria e di quelle irrequietezze che sono prerogative delle razze meridionali.

– Finalmente! – esclamò l’uomo biondo, vedendo delinearsi il palazzo del sultano e la città commerciale. – Ne avevo fino ai capelli di questa navigazione.

– Preferisci navigare fra le nuvole, tu, Ottone – disse l’ometto grasso.

– Sì, Matteo: io sono nato aeronauta e non marinaio come te.

– Noi altri greci siamo tutti uomini di mare, mentre voi tedeschi siete tutti scienziati – disse il compagno, ridendo.

– Tu hai detto una grande verità – rispose il tedesco, accomodandosi gli occhiali.

– Vedremo però se ti troverai meglio di qui quando saremo nel centro dell’Africa.

– Quando sono sul mio pallone, non temo nulla e mi trovo come in casa mia.

– Incontreremo dei negri ferocissimi.

– Non potranno raggiungerci.

– E poi dei leoni, degli elefanti, dei rinoceronti.

– Quantunque io sia un professore, so adoperare il fucile come un vecchio esploratore – rispose il tedesco. – E poi ti ho detto che nessuno potrà raggiungerci.

– Saremo ben costretti qualche volta a scendere a terra.

– Questo è vero. Il mio pallone però è costruito in modo da potersi innalzare istantaneamente al primo indizio d’un pericolo qualsiasi.

– Sono curioso di vederlo questo tuo pallone – disse il greco.

– Una vera meraviglia, Matteo.

– Suppongo che sarà un aerostato simile agli altri.

– È qui che t’inganni. È simile a quello inventato dal conte Zeppelin, che diede così splendidi risultati nell’ascensione sul lago di Costanza, eseguita il mese scorso.

– Chi è questo signor Zeppelin? – chiese il greco.

– Un mio compatriota, il quale ha inventato un nuovo genere di pallone dirigibile. Io sono stato suo allievo, sicché ho potuto costruirne a sua insaputa uno simile.

– Che ci servirà a meraviglia per conquistare la «montagna d’oro», è vero, Ottone?

– Sì, purché quanto m’hai raccontato sia vero.

– Non avrei consumate le mie venticinquemila lire, le uniche che possedevo, se non avessi intera fiducia in quell’arabo.

– Ed io non avrei accettato di associarmi a simile temeraria impresa, se non ti avessi conosciuto come persona incapace di lasciarti ingannare – rispose il tedesco, ridendo.

– D’altronde, vedrai tu stesso il documento e udrai il racconto dell’arabo.

– Allora noi diverremo immensamente ricchi, Matteo.

– Come nababbi – disse il greco.

– E ci renderemo benemeriti della civiltà, strappando quel disgraziato esploratore dalle ugne dei negri.

– E benemeriti della scienza, Ottone, giacché il nostro viaggio non sarà puramente di piacere.

– Silenzio, entriamo in porto.

– E non bisogna che altri conoscano il nostro segreto – disse il greco.

La nave entrava nella vasta baia di Zanzibar, fischiando sonoramente. Salutò il forte con una cannonata e andò a gettare l’àncora in mezzo a parecchie navi inglesi, tedesche ed anche italiane, e fra una folla di barche arabe e zanzibaresi legate alla riva.

Numerose barchette e parecchie zattere montate da negri di statura atletica e molto turbolenti, si erano affrettate a circondare il piccolo vapore, offrendosi di trasportare a terra i passeggeri ed i loro bagagli.

Andavano a gara per accostarsi alla scaletta, di già stata abbassata, disputandosi accanitamente il posto e scambiandosi pugni e scappellotti in così grande abbondanza da far ridere il greco.

– Possiamo scendere a terra? – chiese il tedesco.

– Abbiamo libera pratica – rispose Matteo. – Qui non sono così pedanti come i capitani dei porti europei.

– Hai avvertito il capitano di far portare a terra le nostre casse?

– Questa sera saranno nella mia casetta di campagna.

– Si trova in un luogo isolato?

– Sì, Ottone – rispose il greco. – Tu potrai gonfiare tranquillamente il tuo pallone, senza che nessuno ci disturbi.

– Allora scendiamo.

Strinsero la mano ad alcuni passeggeri che si trovavano presso di loro e scesero in una barca guidata da un negro di statura colossale, il quale era riuscito, a furia di pugni, a conquistare il primo posto sotto la scala.

– Conosci l’arabo El-Kabir? – gli chiese il greco, il quale parlava correttamente lo zanzibarese oltre a un bel numero di dialetti africani.

– Tiene il suo fondaco presso la punta di Kamiki, dietro il serraglio del sultano.

– Conducimi da lui.

Il negro raccolse i remi, s’aprì il passo fra le numerose barche che lo circondavano, minacciando e urlando, e si mise a vogare con tale forza, da attraversare in pochi minuti la baia.

– Approfitteremo per vedere l’harem – disse il tedesco, il quale guardava con molta curiosità le muraglie massicce e merlate che cingevano la parte posteriore del palazzo del sultano.

– Lo vedrai dall’alto del tuo pallone, se vorrai – rispose Matteo.

– Forse che è proibito?

– A Sua Altezza non garba che i «cani cristiani» s’avvicinino troppo ai palazzi che racchiudono le sue donne.

– È un geloso feroce?

– Egli tiene attorno al suo palazzo numerose guardie incaricate di allontanare i curiosi. Se si tratta di un europeo, lo pregano di allontanarsi; se è invece un uomo di colore, lo bastonano senza misericordia.

– Ha paura che gli rubino le mogli o le ricchezze?

– Le une e anche le altre, soprattutto le sue donne. A Sua Altezza non manca d’altronde il motivo per agire così.

– Gli hanno rapito qualcuna della sua casa?

– Nientemeno che sua sorella – disse Matteo. – Circa vent’anni or sono, sotto il regno di Said-Megid, la principessa Solima fu fatta fuggire da un negoziante tedesco, certo Rentor, il quale se la portò in Europa, sposandosela.

«Devo dirti però che la felicità degli sposi fu di breve durata, giacché il negoziante morì presto, lasciando la povera principessa quasi in miseria.

«La vedova invano implorò la clemenza di Said: questi fu inflessibile e non si degnò nemmeno di risponderle.

«Da quell’epoca, più nessun straniero può avvicinarsi al palazzo del sultano, per paura che il brutto avvenimento si possa ripetere.»

– E che cosa fa ora la principessa?

– Dà lezioni di lingua araba in non so quale città della tua Germania.

Mentre discorrevano, la barca passava dinanzi al palazzo del sultano, guardata da drappelli di soldati persiani, dall’aspetto feroce, vestiti con tunica azzurro cupo, stretta alla vita, con calzoni larghi e col capo coperto dal berretto nazionale di forma conica ed armati di sciabole ricurve, di fucili, di pistole e con uno scudo di pelle d’elefante.

Il negro, vedendosi guardato da quei fieri soldati, fu però pronto a girare al largo, sbarcando i due passeggeri sulla punta meridionale della città commerciale.

– E là che abita l’arabo – diss’egli, indicando una casa di forma quadrata, priva di finestre e sormontata da una vasta terrazza.

– Sì – rispose Matteo. – È ben quella l’abitazione del mio arabo.

Quindi, volgendosi verso il negro, disse:

– Ti noleggiamo per tutta la giornata.

– Vi aspetterò qui?

– Sì – rispose Matteo.

Aiutò il compagno a discendere e si cacciò in mezzo alle case e casette che occupavano tutta la penisoletta.

Zanzibar è una città molto commerciale e anche molto abitata. Dall’alba al tramonto, le sue vie sono ingombre da una folla affaccendata, che non sta ferma un solo momento.

Si traffica sulle calate del porto, nelle vie, nelle viuzze, nei bazar, nei caffè arabi che sono numerosi, e negli spacci di liquori, anche questi molto abbondanti e tenuti quasi esclusivamente da portoghesi.

Non è una città veramente africana: è mezza araba, un po’ indiana, un po’ persiana, un po’ negra e un pochino anche europea, incontrandosi tutti i tipi e tutte le razze.

Gl’indiani vi esercitano il piccolo commercio; gli arabi si sono dedicati al traffico colle carovane; i baniani ed i parti di razza persiana si sono invece dedicati al commercio dei metalli preziosi. Queste due razze sono gli ebrei del luogo, avidi, rapaci e perciò disprezzati, anche perché sono considerati come pagani, essendo adoratori del fuoco.

Gli europei invece esportano in grande, trafficando contemporaneamente coll’Europa e coll’Asia.

Oltre a queste diverse razze, vi sono poi negri massai, vuagogo, indigeni dei Grandi Laghi e vuanguana, i quali fanno i portatori, i barcaiuoli, i facchini e i servi. Questi sono i cinesi dell’isola, esercitando i mestieri più bassi ed i meno retribuiti.

Matteo ed il suo compagno, apertosi faticosamente il passo fra quella folla svariata che si addensava nella via, giunsero poco dopo dinanzi alla casa segnalata dal negro.

Come fu detto, quella abitazione era di forma quadrata, con muraglie massicce, nelle quali non si vedevano che strettissime feritoie, che non si potevano di certo credere finestre, dandole così l’aspetto d’una piccola fortezza.

Sul dinanzi s’apriva una vasta bottega, pochissimo illuminata, dove si trovavano ammucchiati alla rinfusa i più disparati oggetti. Vicini ad una scatola di cedro o ad un corno di rinoceronte, vi erano dei pacchi di sapone francese e dei fazzoletti inglesi; dei vasi d’argilla provenienti dall’Abissinia o da Mascate che si urtavano con lampade a petrolio, con caraffe, con anfore, con lunghe collane di corallo, con abiti europei, turchi ed indiani appesi a chiodi; vasi cinesi mescolati confusamente con vasellami di rame di provenienza europea; con armi d’ogni specie, con tappeti persiani, con archi e frecce degli africani, con scudi di pelle d’elefante e d’ippopotamo. Era insomma un vero bazar nel più largo significato della parola.

In mezzo a quel pandemonio d’oggetti così disparati, accoccolata su di un vecchio tappeto, i due amici scorsero un’indiana dalla tinta giallastra, dagli occhi neri come carboni, col corpo plasmato d’unguenti, che emanavano un acuto odore d’incenso e di spezie e coperta di tatuaggi, di cinabro, d’antimonio e d’abiti dai colori smaglianti e così larghi da non lasciar indovinare alcun contorno.

Veduta in quell’atteggiamento e perfettamente immobile, si sarebbe presa per una mummia indiana posta sulla soglia di qualche bizzarro museo.

– Il tuo padrone? – le chiese senza preamboli Matteo.

L’indiana guardò sospettosamente i due stranieri, poi presa una piccola mazza, batté tre colpi su d’una piastra di bronzo, una specie di gong.

A quel suono metallico, assai acuto, una piccola porta nascosta da un vecchio scialle turco s’aprì e comparve un negro armato di un yatagan lucentissimo e d’una pistola incrostata di madreperla.

– Heggia – disse l’indiana. – Questi stranieri domandano del padrone.

Il negro, vedendo il greco, lo riconobbe subito, lo salutò con un sorriso, dicendogli:

– Ben tornato, signor Kopeki.

– Dov’è il tuo padrone? – chiese Matteo.

– Nel cortile.

– Perché sei così armato, Heggia?

– Non sapete?

– Che cosa?

– Che il segreto dell’oro è stato tradito?

– Da chi? – domandò il greco con emozione.

– Da un servo infedele fuggito da questa casa. Egli ha venduto il segreto e si sorveglia il mio padrone.

– Per qual motivo?

– Pare che tutto il segreto non fosse conosciuto da quel servo infedele ed ora si vorrebbe strapparlo tutto intero al mio padrone.

«È un mese che noi vegliamo notte e giorno perché non lo rapiscano.»

– Chi sono questi furfanti che oserebbero tanto?

– Degli arabi di Taborah.

– Ah! Conducimi subito dal tuo padrone.

– Chi è l’uomo che vi accompagna?

– Quello che sono andato a prendere in Europa.

– Allora seguitemi, signor Kopeki. Gli amici vostri sono anche amici del mio padrone.

Passarono sotto la porticina, infilarono uno stretto e buio corridoio e giunsero in un bellissimo cortile di forma quadrata e del più puro stile orientale.

Tutto all’intorno vi era un porticato sorretto da colonnette corinzie di marmo, col pavimento a mosaico ed in mezzo al cortile, fra quattro superbi banani che spandevano un’ombra deliziosa, s’ergeva una grande fontana di marmo rosso, la quale lanciava molto in alto un getto d’acqua.

Una tenda immensa, a svariati e brillanti colori, copriva tutto il cortile stendendosi anche sopra le terrazze che correvano in giro.

Steso su alcuni cuscini di seta, all’ombra di uno dei quattro banani, i due europei videro un vecchio arabo, dalla lunga barba bianca, dalla pelle molto bruna, con un naso a becco di pappagallo e vestito di lanina bianca.

Teneva in mano una lunga pipa colla canna adorna di perle e di placche d’argento e fumava placidamente, godendosi il fresco prodotto dal getto d’acqua.

Quell’uomo era El-Kabir, uno dei più noti commercianti di Zanzibar, che si diceva possessore d’immense ricchezze.

Narravasi che nella sua gioventù aveva viaggiato moltissimo in Africa, facendo il trafficante di carne umana, ossia il negriero, accumulando un vistoso patrimonio, raddoppiato o triplicato più tardi col commercio dell’avorio e dei tappeti persiani. Vere o false quelle voci, si sapeva che era ricchissimo e questo era bastato per creargli una posizione invidiabile in tutta l’isola.

Vedendo comparire il greco, l’arabo aveva deposta la pipa e s’era prontamente alzato, dando mostra di un’agilità veramente giovanile, non ostante i suoi sessanta anni.

– Ti aspettavo con viva impazienza – disse, stendendo la mano al greco. – Qui sono succedute delle cose molto gravi.

– Sai anche tu che l’Europa non è vicina, El-Kabir – rispose Matteo. – E poi l’impresa richiedeva dei preparativi non comuni.

– Hai trovato il pallone?

– E anche la persona di cui ti avevo parlato. Ecco qui il professore Ottone Steker, scienziato ed aeronauta di prima forza.

L’arabo porse la mano al tedesco, stringendogliela energicamente.

– Sapete di cosa si tratta, signore? – gli chiese.

– L’amico Matteo mi ha raccontato tutto.

– Però desidera udire dalle tue labbra il meraviglioso racconto – disse il greco.

– E vedere anche il documento – aggiunse il professore Steker.

L’arabo fece un segno ad Heggia.

– Disporrai quattro uomini armati intorno alla casa – gli disse. – Poi recherai dei rinfreschi.

Mentre il negro si allontanava rapidamente, l’arabo stese all’ombra del banano due splendidi tappeti persiani, vi gettò sopra alcuni cuscini, ed invitò i due europei a coricarsi.

Un momento dopo due negre portavano due grandi vassoi d’argento sui quali erano varie tazze di vero moka, dei gelati che gli zanzibaresi sanno preparare molto bene e dei pasticci di varie specie, mentre un negro deponeva sui tappeti parecchi scibuk ed una scatola laccata ripiena di tabacco profumato.

– Una domanda, prima di tutto – disse l’arabo, dopo d’aver congedato le negre ed il servo. – Avete portato con voi il pallone?

– Sì – rispose Matteo.

– Si tratta di lottare in velocità con gli uomini partiti per la ricerca della «montagna d’oro».

– Come! – esclamarono ad una voce il greco ed il tedesco. – Di già partiti?

– Sì, gli arabi di Taborah hanno organizzata una carovana la quale è già partita pel continente da tre settimane.

– Dunque è vero che il segreto è stato tradito! – esclamò Matteo.

– Sì – rispose l’arabo. – Un servo lo ha venduto ad Altarik, un arabo pure ricchissimo che ha numerosi stabilimenti a Taborah e a Bagamoyo.

– Dove s’è organizzata la carovana?

– A Bagamoyo; a quest’ora deve già trovarsi ben lontana, forse nello Ngura.

– Non importa – disse il tedesco. – Il nostro pallone li lascierà molto indietro e quando essi giungeranno là dove si trova la «montagna d’oro», noi saremo già tornati a Zanzibar.

– Potrà il nostro pallone portare tanta massa d’oro? – chiese l’arabo con voce inquieta.

– Suppongo che non si tratti d’una vera montagna – rispose il tedesco, ridendo. – Vi posso dire però che noi potremo caricare la bagatella di diciottomila chilogrammi di roba.

– Che specie di pallone è il vostro per portare simile peso? – esclamò l’arabo, stupito.

– Lo vedrete domani.

– Partiremo così presto?

– È necessario, per non destare sospetto nel sultano. Mi dicono che sia poco ben disposto verso gli europei che intraprendono spedizioni nell’interno del continente.

– Questo è vero, mirando gli europei a sottrarre alla sua influenza l’Ukani, l’Usagara e l’Useguha. Dovremo quindi agire, con prudenza estrema.

– Per quale motivo? – chiese il greco.

– Sono attentamente sorvegliato.

– Da chi?

– Dagli uomini di Altarik.

– Sospettano che tu parta pel continente?

– Certo – rispose l’arabo.

– Li inganneremo tutti – disse il tedesco.

– In quale modo?

– Venendo a prendervi di notte.

– Col vostro pallone?

– Sì – rispose il tedesco.

– Qui?

– Sì, nella vostra casa.

– Allora deve essere un pallone meraviglioso.

– Dirigibile.

– E potremo andare dove vorremo?

– Anche contro vento.

L’arabo lo guardò con istupore.

– Hanno ragione di dire che gli europei sono stregoni – disse.

– Lasciate gli europei, e narratemi l’istoria della «montagna d’oro» – fece il tedesco. – Desidero apprenderla da voi.

– Accendete la pipa ed ascoltatemi.