IL SOLE TRAMONTAVA fra una nuvolaglia grigiastra che si era distesa, a poco a poco, gonfiata dal vento di ponente, sopra l’Atlantico.
Le onde, che riflettevano gli ultimi bagliori di luce, rumoreggiavano, correndo liberamente fra quell’immensa distesa che si allarga fra le coste americane e le quattrocento Bermude poste, come tanti ridotti, intorno alla Grande Bermuda, che è l’unica isola abitata di quel grosso agglomeramento di terre perdute in mezzo al grande oceano orientale.
Due navi s’avanzavano, coperte di vele fino al pomo degli alberetti, rollando dolcemente sotto i colpi delle onde che le investivano sul babordo, sollevandole con un fragore misurato, che sonava come la grande poesia del mare.
Il vento di libeccio, abbastanza fresco, gonfiava le tele, sibilando fra le centinaia e centinaia di cordami, paterazzi, sartie, manovre scorrenti e manovre fisse e dentro le griselle.
Una era una splendida corvetta, lunga, sottile, ma pure di portata abbastanza grossa, perché ventiquattro pezzi di cannone uscivano dai suoi babordi, mentre sul cassero e sul largo castello di prora si allungavano, disposti in barbetta, quattro grossi pezzi da caccia.
Era coperta di vele, come abbiamo detto, dal ponte ai contropappafichi. Perfino gli scopamari ed i coltellacci erano stati spiegati al di fuori dei pennoni bassi, delle gabbie e dei pappafichi.
L’altra invece era una grossa giunca, larga di fianchi, pesante, di stazzatura molto inferiore alla corvetta che la precedeva, con pochissime artiglierie piazzate tutte in coperta.
Entrambi i navigli però portavano un numero considerevole di uomini, come se fossero veri legni da guerra.
Sulla corvetta, sulla cima dell’albero maestro, sventolava una bandiera rossa, segnale di fuoco permanente, ad ogni ora, ad ogni istante, contro tutti e contro tutto; sulla giunca una bandiera rigata, bianca ed azzurra, senza stelle, perché gli Stati Uniti allora non si erano ancora collegati e non avevano fisse le orgogliose stelle della confederazione.
Era l’ora della cena.
Sulla coperta della corvetta, centocinquanta uomini, di razze diverse (forse antichi filibustieri rifugiatisi alle Bermude dopo la scomparsa di quelli che un tempo, per tanti anni, avevano combattuto ferocemente contro il dominio spagnolo del golfo del Messico e perfino sulle coste del Perù e dell’istmo di Panama) stavano divorando, in piedi, la cena, con quell’invidiabile appetito marinaresco che i terragnoli hanno sempre ammirato.
Colle gambe allargate per reggersi ai colpi delle onde che l’Atlantico scaraventava, di quando in quando, contro i fianchi della corvetta, il piatto posato sul berretto, ingollavano avidamente il merluzzo, sognando la guardia franca.
D’un tratto un grido scende dall’albero maestro e li fa sussultare:
– Vela al tribordo!
Centocinquanta voci chiedono subito:
– Inglese?...
Il gabbiere installato sulla crocetta dell’albero maestro tace per qualche istante, poi la sua voce piomba più imperiosa che mai sulla ciurma:
– Due vele sottovento! Ci danno la caccia!
I piatti, in un baleno, volano in mare insieme al contenuto. Cento uomini si gettano furiosamente verso le murate alle quali sono appoggiati numerosi archibugi dalla canna lunghissima e non poche carabine rigate, di provenienza inglese, e si armano.
Gli altri invece si gettano nelle batterie, pronti a far tonare i ventiquattro pezzi della corvetta.
Il secondo di bordo, un bell’uomo sulla trentina, piuttosto alto, con una ricca barba nera che gli copre quasi interamente il volto e con due occhi che sprizzano lampi, non ha staccato dalle labbra la sua pipa, né ha interrotta la sua passeggiata sul piccolo ponte di comando.
Ha solamente voltata la testa ed ha fissato per qualche po’ il lontano orizzonte che si oscurava rapidamente.
Trascorsero due o tre minuti, poi la voce del gabbiere scese ancora dall’alto:
– Ci cacciano!... Sono proprio due!
Il secondo interruppe la sua passeggiata, si tolse la pipa, e dopo aver gettata in aria una gran boccata di fumo, chiese con voce perfettamente tranquilla:
– Ne sei ben sicuro, Piccolo Flocco?
– Sì, signor Howard.
– Fregate o vascelli d’alto bordo?
– La luce fugge troppo presto, tuttavia io credo che quelle due navi siano d’alto bordo piuttosto che fregate o corvette.
– Ah diavolo! – borbottò il signor Howard. – La cosa cambia aspetto. È necessario avvertire il baronetto.
Poi alzando la voce gridò:
– Testa di Pietra!...
Un uomo di forme massicce, che poteva rivaleggiare per sviluppo di muscoli con un gorilla africano, colla barba brizzolata ed irta come quelle di certe bestie selvagge, la testa enormemente grossa, si staccò dai due grossi pezzi da caccia che si trovavano sul castello di prora e scese sulla tolda, gridando:
– Eccomi, signor Howard.
Pareva un vero orso grigio, per le sue forme, come per le sue mosse pesanti.
Guai però se uno si fosse imbattuto in quel vecchio figlio della vecchia Armorica, la terra delle pietre e delle teste quadre della Bretagna, quella terra che ha sempre dato alla Francia i suoi migliori marinai, i quali imbarcandosi, o per la pesca del merluzzo o per affrontare il nemico, dicono: «Navigare sempre, sopra o sotto le onde, non importa».
E non sbarcano più finché gli acciacchi o l’età non li costringano a prender terra, presso le loro dune di sabbia battute eternamente dalle formidabili ondate della Manica e del Mare di Biscaglia.
Il nostro uomo attraversò la coperta senza troppo affrettarsi, dondolandosi comicamente, e salì sul ponte di comando, togliendosi prima dalla bocca un grosso pezzo di tabacco che stava masticando con una certa voluttà.
– E dunque, mio tenente? – chiese, dopo aver salutato militarmente.
– Che cosa ne pensate voi, mastro? – chiese il signor Howard fissandolo.
– Di che cosa? – domandò tranquillamente l’orso della Bretagna, piantandosi solidamente sulle massicce gambe per reggersi meglio ai colpi di mare che si succedevano senza interruzione, scotendo rabbiosamente la corvetta.
– Di queste due navi che pare ci diano la caccia?
– Penso, mio tenente, che abbiamo ventiquattro buoni pezzi e quattro cannoni da caccia piazzati sui ponti – rispose il bretone.
– E se fossero navi d’alto bordo?
– Certo, l’affare sarebbe un po’ caldo, mio tenente, tuttavia abbiamo a bordo centocinquanta uomini che non hanno mai avuto paura né di Dio né del diavolo, quando alla loro testa hanno avuto un prode come sir William.
– Noi: ma la giunca?
– Ah! Quello è il punto debole – rispose il bretone. – Anche coi suoi otto pezzi riuniti potrebbe fare qualcosa; ma la polvere è così necessaria agli assedianti di Boston!
– Serberemo la nostra. Ne abbiamo per duemila quintali.
– I quali in un combattimento costituiranno un grave pericolo.
– Lo so... Va a chiamare il comandante.
– Sarà di cattivo umore. Da quando quell’uomo che comanda la giunca è giunto alle Bermude, il baronetto è sempre di cattivo umore.
«Che il mare si fosse inghiottito quell’americano!»
– Taci: tu non sai nulla dei segreti di sir William.
– Hum! Ci deve essere sotto la donna. Che il diavolo se le porti via tutte!
In quel momento, per la terza volta, la voce del gabbiere cadde sonora, squillante, dalla crocetta dell’albero maestro.
– Ci stringono!
Testa di Pietra lanciò intorno uno sguardo.
La luce fuggiva rapidamente e le tenebre piombavano sull’oceano. Le onde erano diventate color dell’inchiostro.
Il bretone alzò le spalle.
– Ci stringono – disse. – Bel tempo per montare all’abbordaggio! Prima che il sole ritorni, chissà che cosa avrà preparato il baronetto!
– Va’, Testa di Pietra! – disse il tenente. – Chiacchieri come le donnicciole del borgo di Batz.
– Il mio borgo! – rispose il bretone con un sorriso misto ad un sospiro. – Sempre sul mare, sotto o sopra le onde, e Batz non si trova sul mare.
Scese la scala, col suo passo pesante d’orso, mise il pezzo di tabacco nel berretto, cacciandolo sotto la fodera, forse appositamente bucata, e si diresse verso il quadro, che in quel momento i mozzi avevano illuminato.
– Diavolo secco! – borbottò. – Il comandante non sarà certo di buonumore. Si direbbe che dopo la nostra partenza dalle Bermude l’hanno stregato. Lì sotto c’è la donna, ne sono sicuro. Mary! Quante volte ho udito questo nome sfuggire dalle sue labbra! Mary! Che strega infernale sarà costei? Ma io a vent’anni sono scappato in mare per non rompermi il collo con quelle streghe e mi sono trovato bene. Vento duro, luce, sole, azzurro infinito, valgono più di tutti gli occhi azzurri delle fanciulle della nostra terra di pietre. Bah! Povera gioventù!
Scese la scala, col suo passo pesante d’orso grigio che faceva scricchiolare i gradini, ed entrò nel quadro, sempre borbottando e facendo dei gesti larghi, com’era sua abitudine. Scesa la seconda scala, sostò un momento, grattandosi, con un certo imbarazzo, la folta capigliatura quasi argentea.
– Per il borgo di Batz! – mormorò. – Sono certo di trovarlo di cattivo umore.
S’avanzò nel corridoio pestando e strascinando i suoi piedi da elefante come per annunciare prima la sua visita, poi spinse una porta.
Un salottino elegantissimo, alle cui finestre, che servivano di sabordi, erano delle tende di seta azzurra guarnite di pizzi di Bruxelles, illuminato da un alto candeliere d’argento reggente sei candele, si offrì ai suoi sguardi.
In mezzo, fra i divani di seta a fiori rossi e gialli, seduto dinanzi ad un tavolino d’ebano incrostato di madreperla e d’avorio, stava un bel giovane di ventisei o ventisette anni, di statura piuttosto alta, dal colorito pallido, gli occhi azzurri e la barba ed i capelli biondo fulvi.
Invece di portare la bianca parrucca, come si usava a quell’epoca, aveva i capelli sciolti sulle spalle, come cinquant’anni prima, e leggermente ondulati, che gli davano un aspetto strano ed insieme grazioso.
Vestiva elegantemente, come un cavaliere della corte di Versailles o di Westminster. Casacca di panno finissimo azzurro con larghi alamari d’oro, calzoni di pelle, stivaloni alla scudiera, un tricorno gallonato sul capo.
Stava bevendo: dinanzi a lui una bottiglia ed un bicchiere scintillavano sotto la luce delle candele.
Vedendo entrare il mastro della corvetta, il giovane, che pareva immerso in un dolcissimo sogno, aveva avuto come un leggero soprassalto.
– Tu, Testa di Pietra! – esclamò. – Che cosa vuoi? Che io non possa mai riposare un momento? Non vi è sul ponte il signor Howard?
Il mastro gli lanciò uno sguardo compassionevole e scosse la testa poi disse:
– È lui che mi ha mandato, Sir William.
– È scoppiato il fuoco a bordo?
– Ah no, sir.
– E allora?
– È il fuoco invece che sta per caderci addosso.
– Sulla mia corvetta? Ah!
– Per il borgo di Batz! L’affare è più serio di quello che credete, capitano: ve lo dico io.
– Parla, Testa di Pietra.
– Ci sono due navi che cercano di stringerci.
– Due sole?
– Ma non si sa ancora se siano due fregate d’alto bordo, capitano. L’oscurità ci ha impedito di scorgerle a tempo.
Il baronetto prese il bicchiere che gli stava dinanzi, lo vuotò lentamente, guardando nel fondo come se cercasse di scorgervi qualche immagine, poi chiese:
– Sei ben sicuro che siano due, Testa di Pietra?
– Voi sapete che Piccolo Flocco ha la vista lunga.
– Continua.
– Ho finito. Ci danno la caccia.
Sir William si alzò, girò intorno alla tavola, tormentando colla sinistra la guardia della pesante sciabola d’abbordaggio, poi, fermandosi improvvisamente, chiese:
– Americane o inglesi?
– Per il borgo di Batz!... Non hanno navi d’alto bordo gli yankees, voi lo sapete meglio di me; perciò bisogna concludere che quelle navi siano proprio inglesi, distaccate da qualche squadra delle Antille.
– Hai ragione, Testa di Pietra. E così tutta la mia gente è inquieta?
– Trovarsi fra due navi d’alto bordo, non deve essere certamente una cosa allegra, comandante, quantunque la corvetta sia solida, bene armata e montata dagli ultimi corsari delle Bermude, che non hanno mai avuto nulla da invidiare a quelli del golfo del Messico.
– Che cosa dice il signor Howard?
– Ha semplicemente comandato ai vostri uomini di prepararsi alla battaglia. È un uomo il vostro luogotenente, ve l’assicuro io.
– Se non fosse stato tale, non l’avrei certamente imbarcato – rispose il baronetto con un sorriso.
Si appoggiò contro il tavolino, incrociando le braccia, poi dopo aver riflettuto un momento, chiese:
– Al mio posto che cosa farebbe il mio mastro d’equipaggio, che gode la fama d’essere un vecchio squalo dell’Atlantico?
– Per il borgo di Batz! Cercherei di svignarmela prima del sorgere del sole – rispose il bretone.
– Tentando una falsa rotta?
– Sì, comandante.
– E se non riuscisse?
– Allora monteremo all’abbordaggio come una muta di cani rabbiosi, e chi se le prenderà, se le terrà.
– Ventotto pezzi forse contro cento, e centocinquanta uomini, attaccati da due parti, forse contro cinquecento, sarebbe un gioco troppo pericoloso ed io per ora non ho nessuna voglia di morire, perché devo andare a Boston – disse il corsaro. – Vi è la giunca che ci segue: ecco lo scoglio. Bah, l’affonderemo.
– Coi suoi cento quintali di polveri! – esclamò il bretone, allargando gli occhi. Sapete bene che gli americani hanno estremo bisogno di munizioni.
– Per ora si contenteranno delle polveri che si trovano chiuse nella nostra stiva. Io non ho la potenza di Dio. Vi sono dei rasoi a bordo ed in non piccolo numero, mi pare.
– Dei rasoi? Volete segare con quelli le gole agl’inglesi?
– E poi vi sono a bordo molte casse di vestiti da donna che abbiamo presi a quella nave proveniente da Belfast e destinati alle belle cubane; vi sono anzi anche delle casse piene di cappelli per signorine ed ombrellini e guanti e ventagli. Ne abbiamo abbastanza per mettere a posto le due navi che ci danno la caccia.
– Coi rasoi, colle sottane, cogli ombrelli e coi ventagli! – esclamò il bretone. – Scherzate, sir William?
Il baronetto riempì il bicchiere, lo vuotò con studiata lentezza, poi proruppe in una allegra risata.
– Sarà un bellissimo scherzo che mi farà risparmiare polvere, palle ed uomini – disse poi. – La giunca se ne vada.
– Che sia diventato pazzo per quella misteriosa Mary? – borbottò Testa di Pietra, guardandolo con spavento. – Peccato! Un giovane così audace, un pescecane così formidabile!...
Il corsaro depose il bicchiere, rifece il giro della tavola, poi fermandosi davanti al bretone, il quale non si era ancora rimesso dal suo stupore, gli disse:
– Fa affilare tutti i rasoi e fa cadere tutti i baffi e le barbe che portano i nostri uomini. Se vuoi della cipria, ne ho alcune scatole che metto a tua disposizione. Poi farai aprire tutte le casse che abbiamo preso all’inglese e vestirai i miei uomini come tante miss e ladies. Non dimenticare né i parasoli, né i guanti, né i ventagli, né i cappelli. Voglio che la mia nave, prima che il sole ritorni, sia carica di belle o brutte donzelle.
– Per il borgo...
– Lascia Batz ed il suo cadente campanile! – riprese il corsaro. – Ah, vi è la giunca! Manderai quattro o cinque scialuppe per portare il suo equipaggio sulla nostra corvetta, poi farai sfondare uno dei suoi fianchi e la lascerai colare a fondo.
– Insieme alle polveri?
– Non abbiamo il tempo necessario per trasbordarle, mio caro pescecane. Se gl’inglesi ci sorprendessero ai primi chiarori dell’alba, il mio scherzo potrebbe finir male. E poi ci sono troppi baffi e troppe barbe da tagliare e otto ore non sono molto lunghe.
– E voi credete, comandante, di evitare un disastroso combattimento a colpi di rasoio? – chiese il bretone.
– Certo.
– Hum!
– Ne dubiti?
– Un poco.
– Tu possiedi una vecchia pipa alla quale tieni molto, perché si dice che sia di vera schiuma dell’Asia Minore...?
– La comprò mio nonno a Smirne, centocinquant’anni or sono.
– Benissimo – disse il baronetto. – Se io riuscirò nel mio gioco tu mi regalerai quel vecchio ricordo di famiglia di pescicani; se io perderò ti darò cento ghinee, che andrai a raccogliere in fondo al mare dopo la battaglia, perché il baronetto William Mac-Lellan morrà sul ponte di comando, ma non si arrenderà. Va’, Testa di Pietra. Dirai al mio secondo che prima che il sole sorga, la mia nave sia gremita di miss e che la giunca sia scomparsa.
Il bretone rimase qualche istante immobile, come trasognato, poi decise di andarsene col suo passo pesante che marcava, come tutti i vecchi lupi di mare, ora il rollio ed ora il beccheggio.
Sir William, appena rimasto solo, era tornato a sedersi dinanzi al tavolino, appoggiando il capo alla mano destra e tormentandosi nervosamente colle dita i lunghi capelli.
– Mary! – mormorò. – Sposa di lui! Mai, mai!... L’infame, che ha pure nelle sue vene il sangue di mio padre, me l’ha rapita, ma io saprò riprendergliela. Sono un bastardo, dicono nella Scozia; sono un bastardo, dice mio fratello, perché sono nato da un’altra donna che non si chiamava lady Anna dei duchi di Lorne. Quale colpa ne ho io se mio padre si è innamorato di un’altra donna che non era inglese e che non poteva sposare? Un marchese d’Halifax, io non sono è vero. Giorgio IV mi ha creato nobile, eppure sono costretto io, scozzese, a volgere le armi contro l’Inghilterra... Succeda quello che deve succedere, io riavrò Mary o mi uccideranno dentro le mura di Boston.
Si riempì per la terza volta il bicchiere e vi guardò a lungo dentro.
– Ecco i suoi occhi azzurri che scintillano nel fondo, sopra l’eterna macchia di sangue. È il sangue dei marchesi di Halifax e dei Lorne fusi insieme, o il mio? L’avvenire me lo dirà. Bevo gli occhi e il sangue insieme.
Vuotò d’un colpo la tazza, si accomodò i capelli fulvi dinanzi ad un grande specchio di Venezia, che decorava una delle pareti del salotto, prese da un tavolino un paio di grosse pistole che si cacciò nella cintura e salì lestamente la scala che conduceva sul ponte, mormorando:
– Andiamo a vedere se i barbieri lavorano.